Si spengono le luci sulla 26esima edizione del Far East Film Festival di Udine, che si è tenuto dal 24 aprile al 2 maggio ed è da oltre venticinque anni punto di riferimento in Europa per il cinema dell’estremo oriente.
Seguo ogni anno questo imperdibile appuntamento: questa volta ho scelto di dedicare due giorni esclusivamente ai film di Hong Kong, selezionando non a caso opere che raccontano storie più particolari, legate molto alla peculiarità della vita nella ex colonia britannica.
Ho lasciato ad altri i film di azione, horror, e perfino un grande classico restaurato come “Lanterne Rosse” di Zhang Yimou: mi sono fermato a leggere più in profondità le vite di personaggi comuni, famiglie, ragazzi, anziani e bambini.
Cosa ho visto
In Broad Daylight – 白日之下

Il film che ha aperto la mia esperienza quest’anno è stato “In Broad Daylight” (“白日之下”), diretto dal giovane Lawrence Kan, sempre ambientato a Hong Kong. Si tratta di un dramma che racconta l’inchiesta di una giornalista sugli abusi in una casa famiglia per persone disabili e di come sia riuscita a portare tutto “alla luce del giorno”.
La storia non è completamente frutto della fantasia: trae ispirazione da due vere inchieste giornalistiche che negli anni 2015-2016 hanno rivelato due grossi scandali nel mondo delle strutture private di assistenza.
Secondo la tradizione culturale cinese è la famiglia che deve occuparsi dei parenti disabili o anziani. Ma se questa rete sociale, se una famiglia non c’è? O se, proprio perché disabili, imperfetti, vecchi, soli o “un po’ matti”, la famiglia li abbandona, lo Stato cosa fa? Appalta l’assistenza a strutture private, le quali – si sa – soprattutto in realtà metropolitane gigantesche come Hong Kong, guardano più al profitto che alla missione sociale, con ovvie, drammatiche conseguenze.
Ma “In Broad Daylight” oltre a essere anche una critica sociale, racconta l’inchiesta domandandosi se alla luce del sole i responsabili saranno davvero puniti.
Il regista si sofferma anche con grande sensibilità sulle dinamiche relazionali tra personale e utenti, sapendone raccontare le distorsioni in modo efficace e senza mai cadere nel sensazionalismo.
Una scena in particolare mi ha toccato profondamente: quando la giornalista assiste impotente al lavaggio dei disabili, con canne di gomma sul lastrico del palazzo, nudi e legati alle sedie. La scena poteva facilmente scivolare nel crudo, invece è stata di una delicatezza sorprendente: anche se si trattava della suprema umiliazione, lo sguardo della telecamera – che è anche lo sguardo della giornalista e sopratutto nostro, del pubblico – ha saputo trasmettere intimità, rispetto e pietà. Al ritmo lento della scena, ai particolari solo accennati e circoscritti delle nudità, faceva da contraltare una musica potente che esaltava nel contrasto la drammaticità.
Time Still Turnes The Pages – 年少日記

Altrettanto toccante è stato “Time Still Turns the Pages” (“年少日記”), un altro dramma che tratta il tabù del suicidio infantile a Hong Kong. La pellicola racconta la storia di un bambino oppresso dalle aspettative accademiche, un tema doloroso e forse ormai lontano per noi italiani; la carriera scolastica in Cina e a Hong Kong è fondamentale fin dall’inizio per garantire una vita agiata e rispettata.
Per questo gli studenti fin da bambini vivono costantemente sotto il peso delle aspettative dei loro genitori, e sotto l’incubo di essere sempre i migliori.
In un recente sondaggio gli studenti hanno dichiarato che il loro grado di stress è mediamente di 7,44 in una scala da uno a dieci. A Hong Kong poi non è assicurato un sufficiente supporto psicologico e così gli studenti non hanno altra via d’uscita che studiare sempre di più, fino a consumarsi. Lo stress è talmente tanto che finiscono per convincersi di non avere più alcuna capacità e non hanno più alcun altro interesse.
Il regista e sceneggiatore, il giovane Nick Cheuk, in una recente intervista ha dichiarato di aver voluto realizzare questo film perché sconvolto dal suicidio di un suo stesso amico; ha voluto capire e spiegare le cause di questo fenomeno che non è isolato, ma coinvolge molti giovani studenti in Cina.
L’attore bambino protagonista è stato sublime, aggiungendo un ulteriore strato di empatia e comprensione verso la sua lotta interiore.
The Lyricist Wannabe – 填詞L

Cambiando registro, il secondo giorno si è concluso con la visione di “The Lyricist Wannabe” (“填詞L”), una commedia con protagonista una giovane liceale con il sogni di diventare una paroliera delle canzoni di canto-pop, la musica pop cantonese di Hong Kong.
Ho riso tanto con le battute tipiche della comicità cantonese, fatta di rapidi scambi di doppi sensi, personaggi spumeggianti ed ironici. Il film è piaciuto molto e ancor di più a mia moglie, cantonese, che ha potuto cogliere a pieno anche le sfumature più sottili.
La parte più complicata di scrivere canzoni, infatti, è far combaciare le melodie con i 6/9 diversi toni della lingua. Se non si fa attenzione e si cambia il tono di una parola per farla stare bene nella musica, si può finire per cambiarne completamente il significato. E tutto questo deve essere fatto prima ancora di pensare a fare giochi di parole, usare rime o parole in slang. Così nella musica pop locale le melodie vengono create per prime, e la tecnica davvero usata dai parolieri professionisti è quella non di scrivere liberamente, ma di scegliere con attenzione le parole mentre avanzano, cercando di “incastrarle” nella musica. La protagonista, così, nel corso di una lezione di musica, scopre un ingegnoso metodo, lo “0243” che affronta il dilemma tonale.
Ma il film si è rivelato essere ben più di una commedia leggera: oltre l’idea che basta essere determinati per avere successo, la protagonista scopre che alcuni ostacoli possono essere davvero duri da superare. Questo è particolarmente vero nella Hong Kong di oggi, dove entrare nel mondo elitario della musica è molto difficile e le nuove imprese si scontrano spesso con molta burocrazia.
I talk con i registi e gli attori

Durante il festival, ho anche partecipato a un talk con i registi e alcuni attori dei film che ho visto. È stata un’occasione preziosa per confrontarsi sulle sfide che i giovani cineasti di Hong Kong stanno affrontando, in un’industria cinematografica che è costantemente alla ricerca di un nuovo linguaggio espressivo e di temi che rispecchino le tensioni e le aspirazioni della società.
Dal confronto ne è emerso che il cinema di Hong Kong, dopo il periodo di crisi e dopo la pandemia, sta piano piano riscoprendo temi più personali, intimisti, senza però rinunciare alla propria identità, fatta di uno stile unico, che sembra permeare anche gli artisti più giovani.
Se da un lato ciò è dovuto senza dubbio ad un ridimensionamento dei budget di produzione, che scoraggiano i classici film polizieschi o di azione, dall’altro è il segno che Hong Kong si sta interrogando sulla sua vera identità, su cosa renda questa città, questo territorio così ancora diverso dal resto della Cina continentale.
Prima di tornare…

Prima di lasciare il festival, dove sicuramente torneremo, come ogni anno mi sono regalato alcuni dvd.
Segnalo il meraviglioso “The Grandmaster”, perla ancora poco conosciuta in occidente del grande maestro Wong Kar-wai, e “From Beijing With Love”, di cui sicuramente parlerò in un prossimo post.
Per approfondire
Per chi vuole approfondire, ecco alcuni link interessanti:
il Far East Film Festival di Udine
‘In Broad Daylight’ director wants to be the voice of the voiceless (articolo in inglese)


